La storia
Renato Vallanzasca nel 2013
Lo chiamavano il Bel René. Non solo per gli occhi chiari e il viso cinematografico, ma per il modo in cui attraversava la cronaca nera degli anni Settanta come se fosse un palcoscenico: elegante, sicuro, provocatorio. Ma dietro l’etichetta ammiccante si celava una delle figure criminali più temute e complesse della Milano del dopoguerra.
Milano, anni Sessanta. Un ragazzino cresciuto nel Giambellino, trasferitosi presto con la famiglia alla Comasina, emerge come figura centrale di un microcosmo violento e seducente: bande giovanili, scippi, rapine improvvisate. Renato Vallanzasca, occhi azzurri, eloquio elegante e temperamento spavaldo, non tarda a farsi notare tra coetanei e poliziotti. Le sue prime esperienze con la legge risalgono già all’adolescenza, quando viene arrestato a 16 anni per aver cercato di liberare un leone da un circo. Non è un caso isolato, ma l’inizio di un’escalation.
Tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, Vallanzasca si impone nel sottobosco criminale milanese. Non è affiliato alla mafia né alla ‘ndrangheta: è l’espressione di una criminalità autoctona, metropolitana, che agisce per potere, denaro e prestigio. La sua "Banda della Comasina" diventa un’entità strutturata, con un codice informale fatto di lealtà, armi e violenza. In quel periodo si contano almeno 70 rapine a mano armata, spesso commesse in pieno giorno, con armi automatiche e ferocia ostentata. I colpi avvengono in banche, supermercati, portavalori. Alcuni sono spettacolari, come quello al Banco di Napoli, durante il quale vengono presi ostaggi e bloccato il traffico con auto in fiamme.
Non è un gangster silenzioso: Vallanzasca diventa una sorta di “star criminale”, ricercato e ammirato da una parte dell’opinione pubblica. Viene immortalato in foto con completi sartoriali, circondato da donne e lusso, al centro di cronache giudiziarie che alimentano il suo mito. Ma dietro lo stile e il carisma, c’è un bilancio tragico. Durante l’assalto a un supermercato, nel 1977, il maresciallo Luigi D'Andrea e l'agente Fausto Dionisi vengono uccisi in uno scontro a fuoco a Milano: uno degli episodi più violenti e simbolici. In altri colpi, anche civili perdono la vita, spesso per errore o nervosismo.
La commemorazione della strage del 1977
Accusato di una dozzina di omicidi, Vallanzasca viene arrestato e fugge più volte: nel 1972 evade da San Vittore, nel 1976 da Treviso, nel 1981 ancora da San Vittore, e nel 1987, clamorosamente, dalla clinica dove era ricoverato. Ogni evasione è studiata nei minimi dettagli, con complicità esterne e una rete criminale che lo protegge e lo nasconde. Ma ogni volta viene riacciuffato, quasi sempre in modo spettacolare, come a Roma, nel 1981, armato e in compagnia di una pistola rubata a un agente.
Una cattura di Vallanzasca
La sua condanna definitiva arriva alla fine degli anni Ottanta: quattro ergastoli e 260 anni di carcere. Un numero spaventoso, ma coerente con la gravità dei crimini. In cella, cambia. Comincia a scrivere, collabora con giornalisti, partecipa a progetti di reinserimento. Eppure, anche da recluso, il confine tra legalità e opportunismo resta sfumato: nel 2010 viene sorpreso a rubare in un supermercato durante un permesso premio, con due paia di mutande e due profumi non pagati. Una caduta grottesca per chi aveva guidato una delle bande più temute d’Italia.
Ed è proprio in carcere che il suo nome riemerge, in modo imprevisto, in relazione al caso Pantani.
Nel 2014, Vallanzasca viene ascoltato dai carabinieri di Forlì nell’ambito di una nuova inchiesta sull’esclusione di Marco Pantani dal Giro d’Italia del 1999. Durante un’intervista e poi in un verbale formale, racconta un episodio avvenuto in carcere: un detenuto, legato alla Camorra, gli propose una scommessa “sicura” sulla corsa, pochi giorni prima della famigerata tappa di Madonna di Campiglio. L’uomo gli garantiva che Pantani sarebbe stato “fatto fuori” dal Giro. Non si parlava di doping, né di infortuni: semplicemente, il campione non avrebbe finito la corsa. Quando, pochi giorni dopo, Pantani venne escluso per ematocrito superiore al limite consentito, Vallanzasca disse di aver collegato i fatti.
Per anni queste dichiarazioni rimasero lettera morta. Solo nel 2021 la Commissione Parlamentare Antimafia prese sul serio l’ipotesi di un intervento esterno legato a scommesse clandestine. In quel contesto, le parole di Vallanzasca vennero rivalutate: non come prova, ma come indizio coerente con altre testimonianze. Lo stesso Vallanzasca, in una lettera alla madre di Pantani, scrisse di essere “convinto che Marco fosse stato sabotato” e che il suo racconto doveva servire “alla ricerca della verità, non a spettacolarizzazioni”.
Rimane il fatto che nessuna prova diretta ha mai confermato quel presunto complotto. Ma da allora, le autorità non hanno più potuto ignorare una coincidenza troppo precisa per essere solo casuale. La verità storica resta in bilico, tra piste investigative e vuoti di memoria.
Nel 2024, Renato Vallanzasca è stato trasferito in una RSA a causa di un grave deterioramento cognitivo. L’uomo che un tempo fece tremare Milano, che evase quattro volte, che ispirò libri, film e dibattiti, ora vive in una condizione di declino irreversibile. Ma ciò che ha raccontato su Pantani, al di là di ogni simpatia o diffidenza, continua a far parte del mosaico irrisolto di uno dei misteri sportivi più inquietanti d’Italia
Una mostra dedicata a Vallanzasca e alla sua feroce banda
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