Il caso
Yara Gambirasio
Una traccia microscopica cambiò per sempre il corso delle indagini. Quando, sugli slip e sui leggings di Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre 2010, venne isolato un profilo maschile sconosciuto, battezzato Ignoto 1, cominciò una delle più imponenti indagini genetiche mai condotte in Italia.
Quelle poche cellule sarebbero diventate la chiave per aprire un abisso giudiziario, fino a portare all’arresto di Massimo Giuseppe Bossetti, muratore di Mapello, grazie a una corrispondenza genetica circolare emersa in un finto controllo stradale con prelievo tramite etilometro.
Quella traccia emersa dagli esami autoptici cambiò tutto: un profilo genetico maschile isolato sui suoi indumenti intimi, in particolare sugli slip e sui leggings. Quel DNA non apparteneva a nessuno della famiglia della vittima, né ai soccorritori. Era un “fantasma”: Ignoto 1.
A quel punto partì un'indagine genetica senza precedenti. I RIS di Parma riuscirono a ricostruire un profilo completo di DNA nucleare, sufficiente per identificare un individuo. Ma non c’era nessun riscontro nei database giudiziari. Così gli investigatori imboccarono una strada mai tentata prima in Italia su queste proporzioni: uno screening genetico a tappeto su una parte significativa della popolazione della provincia di Bergamo.
Iniziarono dalla zona del ritrovamento e da quella della scomparsa, tra Brembate di Sopra e Mapello. Vennero effettuati oltre 20.000 test del DNA tra amici, conoscenti, vicini, ex detenuti, lavoratori dei cantieri della zona e persone che frequentavano i luoghi in cui Yara era stata vista. Vennero organizzate campagne nei centri sportivi, nei paesi della Val Seriana, persino nelle scuole. Non si cercava solo l’identità diretta di Ignoto 1, ma legami genetici: fratelli, cugini, figli.
Fu così che, dopo anni di indagini, si arrivò a una svolta. Un test eseguito su un giovane della zona rivelò una compatibilità parziale con Ignoto 1. Gli inquirenti, incrociando le analisi, risalirono al padre biologico del profilo genetico sconosciuto: Giuseppe Guerinoni, un autista di Gorno morto nel 1999. Da lì, un lavoro certosino tra discendenti e relazioni extra-familiari portò a un nome: Massimo Giuseppe Bossetti, figlio legittimo per l’anagrafe, ma non geneticamente.
Bossetti fu fermato nel giugno 2014 dopo un prelievo di DNA “coperto”, durante un falso posto di blocco. Il suo profilo genetico risultò pienamente compatibile con quello di Ignoto 1. I RIS definirono il riscontro “inequivocabile”, basato su 21 marcatori genetici coincidenti. Per gli inquirenti, la prova regina.
Ma il DNA non fu l’unico elemento: le telecamere lo ripresero nei pressi della palestra, le celle telefoniche lo agganciarono in zona nelle ore decisive, e il suo alibi risultò poco solido. Tutto questo contribuì a costruire un impianto accusatorio che portò all’ergastolo in via definitiva.
Nonostante le condanne, la difesa ha sempre contestato l’intera ricostruzione, mettendo in dubbio la catena di custodia dei reperti, l’assenza del DNA mitocondriale e l’impossibilità di verificare autonomamente le analisi. Dopo anni di richieste, proprio nel 2024 è arrivata una svolta: il tribunale ha autorizzato l’accesso a tutti i 54 campioni genetici ancora conservati, inclusi quelli di Yara. La difesa spera ora di riesaminare gli elettroferogrammi e riaprire il caso.
Il parallelo con un altro misterioso “ignoto” della cronaca nera italiana è inevitabile. Nel caso del delitto di Garlasco, un profilo genetico mai identificato, denominato “Ignoto 3”, è stato recentemente trovato nella bocca della vittima, Chiara Poggi. Parallelismi sono impossibili, al momento, ma il caso di Yara ci ha insegnato che la genetica può scrivere la verità, ma anche aprire scenari nuovi quando ogni altra traccia sembra svanita.
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