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La storia

Otto anni fa l'urlo di Laura Palmer chiudeva Twin Peaks 3: cosa rimane di una serie che ha turbato il mondo cambiando l'anima di chi l'ha amata

L'eredità di David Lynch: nessuno ha saputo replicare la grazia con cui faceva coesistere il ridicolo e il sublime

Giovanni Ramiri

03 Settembre 2025, 12:21

Otto anni fa l'urlo di Laura Palmer chiudeva Twin Peaks 3: cosa rimane di una serie che ha turbato il mondo cambiando l'anima di chi l'ha amata

L'urlo finale di Laura Palmer-Carrie Page

Era il 3 settembre 2017, ultima puntata di “Twin Peaks: The Return”. Otto anno dopo, ora che David Lynch non c’è più, la sua assenza si sente come un brusio elettrico lasciato acceso nella casa della serialità. Non è solo lutto per un autore: è il vuoto del suo modo di pensare le immagini, di rovesciare le regole del racconto, di farci vivere la TV come un sogno condiviso in cui la trama è un evento atmosferico più che una sequenza di cause ed effetti. “The Return” è diventata, col passare degli anni, la sua firma definitiva: non un epilogo, ma un varco. E quel varco continua a emettere segnali.

Cosa resta oggi del capolavoro? Resta l’idea che la televisione possa essere un’esperienza percettiva, non un riassunto; che l’interpretazione non sia un rompicapo con una soluzione, ma una pratica affettiva. Resta l’etica del rischio, testimoniata da un episodio come l’8, in cui la storia degli Stati Uniti è riletta come una detonazione cosmica e radiotrasmessa negli anni ’50; resta il coraggio di far coesistere slapstick e metafisica, soap e canto funebre. Resta soprattutto la fiducia nello spettatore: Lynch e Mark Frost non spiegano, ma permettono. È una fiducia rara, e per questo oggi appare ancora più preziosa.

Le domande irrisolte non sono macchie da rimuovere; sono la struttura portante del testo. La più assordante è l’urlo finale di Carrie Page/Laura Palmer. Quell’urlo non chiede di “capire chi è” Carrie, ma di accettare che l’identità, in Twin Peaks, è una corrente alternata: la memoria non è un archivio, è una possessione. Se Carrie “ricorda” di essere Laura, non lo fa recuperando un fatto, ma subendo un cortocircuito sonoro: la voce della madre, la luce della casa, il nome pronunciato da Cooper come una chiave che spezza la serratura invece di aprirla. È l’istante in cui la cura diventa violenza: Cooper, nel tentativo di salvare Laura, impone un racconto che il mondo non può sostenere. L’urlo è l’aria che si strappa quando due realtà vengono cucite con filo troppo teso.

Da qui la domanda di Cooper: “In che anno siamo?” È la frase che sostituisce la soluzione. Non è la classica conferma dell’avvenuto salto dimensionale: è il riconoscimento che il tempo, in Twin Peaks, è un materiale, come il legno del Roadhouse o il caffè del Double R. Cooper non ha perso l’orientamento; ha perso il calendario. E quando crolla il calendario, crolla anche l’idea di redenzione. Non esiste un “prima” macchiato e un “dopo” purificato: esistono versioni, come nastri sovraincisi. L’eroe cavalleresco della prima serie, trasfigurato nel Richard ambiguo di “The Return”, è il sintomo più chiaro di questa torsione: il salvatore può diventare il guasto.

Che fine fa, allora, la promessa di salvezza iscritta nell’icona di Laura? La sua immagine—che torna, scompare, risorge in fotografie che cambiano da sole—non consegna una risposta, ma un metodo: guardare finché l’immagine non si difende più, finché mostra le cuciture. In questo senso Judy, la entità senza nome che attraversa l’opera come un ronzio, è meno un mostro che una condensazione di traumi. Non è “da sconfiggere”: è da riconoscere, da nominare senza possederla. Il Fuochista (il Fireman) che invia l’icona di Laura come contromisura non promette il paradiso: propone un contrappeso. Il male, a Twin Peaks, non è mai eliminato: è magnetizzato altrove.

Kyle MacLachlan

Lynch ha portato nella cultura di massa un’idea quasi sacrale dell’immagine. Il suo cinema e la sua televisione trattano il dettaglio quotidiano come un talento sonoro: ogni lampadina, ogni neon, ogni presa d’aria ha un suono, un tremito, una memoria. L’immaginario di “The Return” ha fertilizzato l’arte contemporanea, certo, ma soprattutto ha addestrato lo sguardo del pubblico. Da allora, chi guarda serie e film è più disponibile ad accettare l’oscurità come parte del patto narrativo. Non a caso molte opere successive hanno provato a replicare quella temperatura emotiva: la nostalgia capovolta, l’ellissi come unità minima, l’episodio che diventa installazione. Ma nessuno ha saputo replicare la grazia con cui Lynch faceva coesistere il ridicolo e il sublime. È questa la sua vera eredità: una grammatica di contrasti tenuta insieme dalla bontà di un caffè e dall’orrore in una presa, senza separare mai i due poli.

E Mark Frost? Può davvero esistere un’ulteriore stagione senza Lynch? La risposta onesta oggi è doppia. Da un lato, la mitologia di Twin Peaks è anche—profondamente—frostiana: l’architettura dei documenti, la storia segreta dell’America, la cartografia delle logge e dei dossier. Frost ha sempre lavorato come geometra del mistero, dove Lynch era il suo meteorologo dell’inconscio. Questa doppia natura spiega perché “The Return” stia in piedi: un reticolo concettuale che regge scosse telluriche di senso. Dall’altro lato, però, la forma Twin Peaks recente coincide con la regia e il montaggio di Lynch, con il suo tempo elastico, con le sue durate ostinate, con le sue facce che diventano paesaggi. È difficile immaginare una “quarta stagione” che non suoni come una variazione da camera su un tema sinfonico. Frost stesso, tra ricordi e interviste, ha fatto capire di non avere piani concreti senza il suo partner, pur lasciando socchiusa la porta a altri modi di abitare il mondo di Twin Peaks: racconti, saggi, frammenti, forse—più che una stagione numerata—derivazioni che rispettino il silenzio lasciato da Lynch

David Lynch

Se esistesse davvero un “dopo”, come dovrebbe essere? Probabilmente non un sequel che “spiega” l’urlo, ma un atto di custodia. Twin Peaks non ha bisogno di più risposte: ha bisogno di più attenzione. Nel paese dei tronchi parlanti e dei biscotti ciliegia, i vivi ascoltano i morti attraverso gli oggetti. Forse il modo più onesto di proseguire è restare nella cittadina, seguire il Double R che apre e chiude, le luci del Roadhouse che cambiano come stagioni, i personaggi minori che diventano centri di gravità. Un dopo che sia laterale, non frontale; un controcampo più che una replica.

E quell’urlo? È diventato il suono che ci accompagna ogni volta che proviamo a “correggere” il passato. Dopo “The Return”, molte storie hanno cercato di riparare i loro traumi con viaggi nel tempo, timeline alternative, reset emotivi. Lynch e Frost ci hanno già mostrato il prezzo: puoi attraversare il confine, ma il confine attraversa te. “In che anno siamo?” è la domanda che resta quando l’eroe si accorge di aver spostato le pareti della casa e di ritrovarsi all’aperto, nella corrente fredda del reale. Non c’è un anno giusto in cui le cose vanno a posto; c’è il tempo che ci abita.

Twin Peaks ha turbato il mondo, cambiando l'anima di chi l'ha vista e amata. Otto anni sono bastati perché “The Return” smettesse di essere un evento e diventasse una condizione. La sua eredità oggi è duplice: da una parte un canone—scene, gesti, icone—che continuiamo a rivedere e a citare; dall’altra un’etica dello sguardo che ci chiede di restare, di non interpretare troppo in fretta, di accettare il rumore. È così che il lavoro continua anche senza il suo autore: non come monumento, ma come pratica. Finché accetteremo di sederci al bancone del Double R, di guardare la tenda rossa senza sperare che si apra su una spiegazione, Twin Peaks resterà vivo.

E forse è questo il lutto più luminoso: scoprire che l’opera non finisce col suo creatore. Lynch ha educato il nostro orecchio alle frequenze del mistero. Adesso tocca a noi mantenerle sintonizzate, senza abbassare il volume per paura del buio. In che anno siamo? Nel tempo di Twin Peaks, che non passa: scorre attraverso

Mark Frost con David Lynch

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