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La storia

Il morbo che colpì Lou Gehrig e la scoperta della Sla: il 4 luglio 1939 il campione dei New York Yankees sconvolse il mondo con il suo discorso

Davanti a 60mila persone in lacrime disse: “Oggi mi considero l’uomo più fortunato sulla faccia della Terra”

Giovanni Ramiri

05 Luglio 2025, 11:17

Il morbo che colpì Lou Gehrig e la scoperta della Sla: il 4 luglio 1939 il campione dei New York Yankees sconvolse il mondo con il suo discorso

Il celebre "speech" di Gehrig (canale Youtube Mlb)

Per milioni di americani, il 4 luglio è la festa dell’indipendenza. Ma in un afoso pomeriggio del 1939, fu un altro tipo di libertà — quella di un uomo dal dolore, dall’orgoglio e dalla paura — a scrivere la pagina più toccante nella storia dello sport americano.

Lou Gehrig, il simbolo indiscusso dei New York Yankees, salì sul diamante dello Yankee Stadium non per giocare, ma per dire addio. Non per un infortunio, né per età. Ma per una diagnosi senza via d’uscita: sclerosi laterale amiotrofica, una malattia di cui quasi nessuno aveva mai sentito parlare.

Quel giorno, davanti a oltre 60.000 persone, Gehrig prese la parola. Il suo corpo aveva iniziato a cedere, ma la voce e la dignità erano ancora salde. E in poche frasi — 277 parole, per l’esattezza — cambiò per sempre il modo in cui lo sport guarda alla fragilità, al coraggio e alla fine.

“Oggi mi considero l’uomo più fortunato sulla faccia della Terra”.

Parole sussurrate più che urlate. Piene di lacrime, ma prive di rabbia. In quel momento, Lou Gehrig smise di essere solo un atleta straordinario — due volte MVP, sei titoli delle World Series, 2.130 partite giocate senza mai fermarsi — e divenne qualcos’altro: un simbolo umano e universale di forza interiore.

Fu la prima volta che il mondo ascoltò il nome di quella malattia. Da allora, per milioni di persone, la SLA avrebbe preso il suo: il morbo di Lou Gehrig. Una condanna lenta e crudele, che porta alla paralisi muscolare, al silenzio, all'immobilità, alla morte. Eppure, quel giorno, non c’era spazio per la disperazione. Solo gratitudine.

Lou Gehrig morì due anni dopo, il 21 luglio 1941, all’età di 37 anni. La sua squadra ritirò il numero 4. Il suo armadietto fu chiuso a chiave per sempre. Ma nessuno ha mai davvero detto addio a Lou.

Oggi, cento anni dopo quel discorso, il suo esempio continua a vivere. Non solo tra gli appassionati di baseball, ma in chiunque abbia affrontato una diagnosi difficile, un limite fisico, una prova interiore. Lou Gehrig non vinse la battaglia contro la malattia. Ma vinse qualcosa di più raro: l'immortalità morale.

Nel ricordo collettivo, rimane ancora lì, al centro dello Yankee Stadium, mentre guarda negli occhi l’America e le sussurra che, nonostante tutto, si può essere fortunati. Anche quando si sta per perdere tutto.

``` smise di essere solo un atleta straordinario — due volte MVP, sei titoli delle World Series, 2.130 partite giocate senza mai fermarsi — e divenne qualcos’altro: un simbolo umano e universale di forza interiore.

Fu la prima volta che il mondo ascoltò il nome di quella malattia. Da allora, per milioni di persone, la SLA avrebbe preso il suo: il morbo di Lou Gehrig. Una condanna lenta e crudele, che porta alla paralisi muscolare, al silenzio, all'immobilità, alla morte. Eppure, quel giorno, non c’era spazio per la disperazione. Solo gratitudine.

Lou Gehrig morì due anni dopo, il 21 luglio 1941, all’età di 37 anni. La sua squadra ritirò il numero 4. Il suo armadietto fu chiuso a chiave per sempre. Ma nessuno ha mai davvero detto addio a Lou.

Oggi  il suo esempio continua a vivere. Non solo tra gli appassionati di baseball, ma in chiunque abbia affrontato una diagnosi difficile, un limite fisico, una prova interiore. Lou Gehrig non vinse la battaglia contro la malattia. Ma vinse qualcosa di più raro: l'immortalità morale.

Nel ricordo collettivo, rimane ancora lì, al centro dello Yankee Stadium, mentre guarda negli occhi l’America e le sussurra che, nonostante tutto, si può essere fortunati. Anche quando si sta per perdere tutto.

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