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Il caso

Delitto di Garlasco, l'amarezza dei genitori di Chiara Poggi: "Non ci ha mai detto di non averla uccisa". Cassazione conferma la semilibertà

I giudici della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso della Procura Generale, stabilendo che Stasi può proseguire il percorso in semilibertà

Giovanni Ramiri

01 Luglio 2025, 18:10

Chiara Poggi e Alberto Stasi

Chiara Poggi e Alberto Stasi

Alberto Stasi non ha mai detto “non ho ucciso Chiara”. Lo affermano, con amarezza, i genitori di Chiara Poggi in un’intervista pubblicata oggi, mentre la Corte di Cassazione conferma per lui la semilibertà. Non è un dettaglio, non è una frase buttata lì: è una ferita aperta, che si aggiunge a quella dell’omicidio, alla condanna, agli anni trascorsi, al tempo che si è fermato in quella casa di Garlasco dove Chiara è stata uccisa il 13 agosto 2007.

Giuseppe Poggi, il padre, racconta di aver atteso quelle parole nei giorni in cui ancora accompagnava Stasi al cimitero, nei mesi in cui l’inchiesta era appena cominciata. “Mi aspettavo che ci dicesse ‘mi stanno indagando, ma io non c’entro’. Non lo ha mai fatto”. Nemmeno quando avrebbe potuto, nemmeno quando era solo con loro. Un silenzio che pesa più delle parole, e che per la famiglia suona come una conferma di quella verità che i tribunali hanno certificato: Stasi è stato condannato in via definitiva a 16 anni di carcere per l’omicidio della fidanzata. Oggi, a diciotto anni dall’omicidio, i giudici della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso della Procura Generale, stabilendo che Stasi può proseguire il percorso in semilibertà. Ha già ottenuto i primi permessi, lavora, torna in carcere la sera, ma non può mettere piede a Garlasco. Un limite formale, che per i genitori di Chiara non basta a colmare lo squilibrio tra giustizia e sofferenza.

Rita Poggi, la madre, spiega di non avere mai infierito su di lui, nemmeno durante il processo. Ma oggi si ritrova a dover giustificare la propria amarezza. “Siamo noi, ora, quelli che devono stare in silenzio”, dice, con un tono che racconta più della sentenza. Non è solo il tempo ad aver scavato il dolore, ma anche il modo in cui questo dolore viene visto, trattato, accolto. I riflettori, spesso, sembrano più concentrati sull’uomo condannato che sulla giovane donna uccisa. E quando la giustizia autorizza la semilibertà, nonostante una condanna definitiva, nonostante un corpo lasciato sulle scale di casa, la sensazione che resta è quella di essere rimasti indietro. Non per vendetta, ma per dignità.

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