IL CASO
Il Tribunale di Grosseto
Offesa, isolata, continuamente sorvegliata (anche in bagno) e costretta a lavorare in sala mensa mentre i colleghi pranzavano. Un incubo. Tutto per indurla alle dimissioni. Ma alla fine il Tribunale di Grosseto (sezione Lavoro) ha accolto la domande di un'ex impiegata di un'azienda lattiero casearia di Monterotondo Marittimo, riconoscendo non solo il suo diritto a un inquadramento superiore, ma soprattutto l’illegittimità delle condotte aziendali che hanno configurato un vero e proprio caso di mobbing. La lavoratrice è stata sostenuta nella vertenza dalla Flai Cgil e in tribunale dagli avvocati Andrea Stramaccia e Sara Simoni dello studio Bellotti.
La lavoratrice, assunta qualche anno fa come impiegata amministrativa al V livello del Contratto nazionale Alimentare Industria, ha dimostrato in giudizio di avere sempre svolto mansioni di maggiore complessità e responsabilità, tali da meritare un inquadramento almeno al IV livello. Il Tribunale ha quindi accertato il diritto della lavoratrice a essere inquadrata fin dall’assunzione nel IV livello contrattuale, condannando l'azienda al pagamento delle differenze retributive maturate.
Particolarmente significativa è stata la pronuncia in ordine al mobbing, configurato da una serie di condotte aziendali prolungate, deliberate e mirate a mortificare la lavoratrice, specie dopo la sua iscrizione alla Cgil e l’elezione nella Rsu aziendale. Il Tribunale ha ricostruito minuziosamente queste pratiche vessatorie: demansionamento (sottrazione delle mansioni amministrative più qualificate e affidamento di compiti semplici o marginali, anche dopo l’arrivo di nuova personale, con progressiva esclusione dai processi decisionali), assegnazione a mansioni inferiori (incarichi di mero controllo del latte o trascrizioni di ordini, tipici del V livello, in spregio alla professionalità maturata), trasferimento in un ambiente lavorativo inadeguato (dall’ufficio seminterrato umido alla sala mensa, dove la lavoratrice si trovava a lavorare mentre i colleghi pranzavano), isolamento forzato (espresso divieto ai colleghi di entrare nel suo ufficio, con episodi di cacciata in malo modo di chi tentava di farlo), controlli ossessivi e umilianti (cronometrazione dei tempi per la compilazione di documenti, rimproveri costanti e sorveglianza persino durante le pause in bagno), offese e denigrazioni personali: frasi umilianti pronunciate anche in presenza di terzi ("… si vede non sei una cima, d’altronde non pulisci…"), pressioni finalizzate a indurre le dimissioni (durante riunioni interne il titolare sollecitava i responsabili a esercitare “maggiori pressioni” sui dipendenti ritenuti sgraditi, fra cui la stessa lavoratrice), turni punitivi e cambi di orario improvvisi (strumento usato per penalizzare chi aderiva al sindacato o reclamava i propri diritti), timbratura del cartellino strumentale (obbligo introdotto in modo selettivo durante il Covid, costringendo la lavoratrice a procedure particolarmente gravose), clima generale di ostilità (confermato da colleghi, sindacalisti e persino dal sindaco intervenuto per cercare di ricomporre un contesto lavorativo divenuto insostenibile).
Il Tribunale ha affermato che queste condotte, considerate nel loro insieme, integrano pienamente il mobbing, ledendo la salute psico-fisica della lavoratrice.
Alla luce anche della consulenza medico-legale che ha certificato un disturbo dell’adattamento di origine lavorativa, il Tribunale ha condannato l'azienda a versare alla lavoratrice una cifra a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale (danno biologico, morale ed esistenziale), oltre interessi legali calcolati anno per anno; le differenze retributive dovute per il riconoscimento del IV livello sin dall’assunzione; le spese legali, oltre accessori di legge; le spese della consulenza tecnica d’ufficio e delle trascrizioni delle udienze.
“Questa sentenza – commentano Mirko Borselli, segretario generale Flai Cgil Toscana, e Paolo Rossi, segretario generale Flai Cgil Grosseto – rappresenta un precedente di grande rilievo per la tutela dei diritti e della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori, riaffermando che nessun obiettivo aziendale può giustificare la violazione dei principi fondamentali di rispetto della persona e del corretto esercizio dei poteri datoriali. Significativo anche il contributo dei colleghi della lavoratrice per far emergere la situazione. Siamo convinti che la caparbietà con cui la lavoratrice ha rivendicato ciò che le spettava abbia un valore prezioso per la collettività. Il caso dimostra quanto sia fondamentale che le lavoratrici e i lavoratori non restino soli e possano contare sul sostegno sindacale e sulla giustizia per vedere riconosciuti i propri diritti”.
“Il mobbing è sempre difficile da dimostrare in tribunale – aggiungono gli avvocati Andrea Stramaccia e Sara Simoni – soprattutto per il timore dei colleghi di lavoro di testimoniare contro il proprio datore di lavoro. Questa sentenza è quindi importante per dare coraggio a chi subisce mobbing perché ottenere giustizia è possibile se ci si crede. La lavoratrice ci ha creduto, aiutata dal sindacato e questo le ha ridato dignità e fiducia. Siamo di fronte a un ottimo esempio di giustizia sul lavoro”.
“Questa sentenza per me rappresenta un riscatto – dichiara la lavoratrice –. Ho scelto questo percorso per avere giustizia, per dare un segnale sull’importanza di far valere i propri diritti, per dare forza a chi si trova nella situazione in cui mi sono trovata io. In questi casi è importante affidarsi e chiedere supporto, e avere fiducia nel sindacato e nella legge: ringrazio la Flai Cgil e i legali. La verità va sempre fatta emergere e bisogna sempre farsi rispettare, siamo nel 2025 ed è inaccettabile che si debba ancora assistere a certe cose. Spero che questa vicenda possa diventare un modello per chi subisce determinate situazioni, il messaggio che voglio lanciare è che c’è sempre una via d’uscita. Può essere faticosa, dolorosa, ma c’è e ne vale la pena”.
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