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Il ritorno

Sandokan, la storia vera del mito: dai romanzi di Salgari alla leggenda di Kabir Bedi. La Tigre della Malesia che ha conquistato cinema, tv e generazioni

Giovanni Ramiri

01 Dicembre 2025, 21:00

Sandokan, la storia vera del mito: dai romanzi di Salgari alla leggenda di Kabir Bedi. La Tigre della Malesia che ha conquistato cinema, tv e generazioni

Kabir Bedi in Sandokan

Oggi pronunciare la parola Sandokan significa evocare una forma di eroismo che non appartiene solo alla letteratura, ma alla memoria storica e culturale di intere generazioni. È sorprendente pensare che tutto cominciò con un romanzo uscito nel 1883, Le tigri di Mompracem, nato dalla penna e dall’immaginazione febbrile di Emilio Salgari. Da lì iniziò un viaggio che dura da oltre un secolo e che attraversa carta, pellicola, televisione, musica, illustrazione, cultura pop e persino costume. Un percorso che ha trasformato un personaggio di finzione in un archetipo mondiale.

Sandokan è il principe spodestato, il guerriero ferito nell’onore, il pirata dal cuore ardente. È il simbolo di un Oriente immaginato, romantico e crudele, dove giungle fitte nascondono complotti coloniali e mari neri come inchiostro custodiscono libertà e vendetta. La sua storia è dolorosa: aristocratico malese, esiliato dal suo regno, costretto a diventare pirata per rivendicare un’identità che gli era stata strappata. Non è bandito per vocazione, ma per destino. La sua spada, le sue battaglie, la sua ferocia sono figli di un torto subito.

In quell’ingiustizia nasce il mito. La sua ferocia è fuoco, il suo amore è brace. Marianna — la Perla di Labuan — non è solo un amore proibito, è la prova che la tigre sa anche farsi uomo. Lo è quando soffre, quando ama, quando perde. La loro storia è tragica e luminosa, come certe notti tropicali in cui il cielo sembra piangere stelle. Accanto a lui c’è Yanez de Gomera, ironico, lucido, fratello più che compagno. Sandokan è il cuore, Yanez è il sangue. Uno brucia, l’altro ragiona. Insieme sono leggenda.

Emilio Salgari

La carta non bastò: l’immaginario chiedeva un volto

Quando un personaggio supera la pagina e comincia a vivere nella mente collettiva, prima o poi l’immagine chiede corpo. Il romanzo diventa troppo piccolo. Così nacquero gli adattamenti cinematografici. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta comparvero I pirati della Malesia, Sandokan alla riscossa, Sandokan contro il leopardo di Sarawak, produzioni italiane e internazionali che iniziarono a scolpire il mito nell’occhio dello spettatore. Erano film avventurosi, esotici, spettacolari, impregnati di colori accesi e colpi di sciabola. La figura del pirata orientale divenne icona, fascino, fantasia di un altrove tropicale che nessuno aveva mai visto davvero.

Ma la svolta arrivò nel 1976. Un volto, uno sguardo, una voce profonda e magnetica: Kabir Bedi. Quell’anno la serie Sandokan diretta da Sergio Sollima esplose come un terremoto culturale. Non fu una fiction: fu un’epifania. L’Italia si fermò per guardare quello sguardo di tigre, quell’uomo che sembrava davvero venire da un altrove misterioso. Le musiche dei Guerrieri della notte — oggi riconoscibili da chiunque — divennero colonna sonora di una generazione. Kabir Bedi non interpretò Sandokan: lo incarnò. Ne divenne carne, ossa, espressione. Dopo di lui, nessuno poté più immaginare Sandokan diverso.

Kabir Bedi

L’effetto fu planetario. La serie arrivò in più di ottanta Paesi, generò sequel, film televisivi, merchandising, romanzi illustrati e perfino un cartone animato negli anni Novanta. Sandokan divenne fenomeno di massa, mito popolare alla pari di Zorro o Robin Hood. Era l’eroe esotico, coraggioso, sensuale, spietato e romantico. Un uomo capace di affrontare tigri e imperi e allo stesso tempo di inginocchiarsi davanti all’amore. Un pirata, ma con un’etica. Un ribelle, ma con un codice più saldo dell’acciaio.

Da quel momento Sandokan non è più stato un personaggio: è stato immaginario puro.

Oggi Sandokan è storia del cinema

Non è un’esagerazione: Sandokan è studiato nelle università come archetipo narrativo; è citato nei saggi sul colonialismo letterario; è riconosciuto come una delle figure più influenti della narrativa d’avventura europea. Il volto di Kabir Bedi appartiene ormai alla storia del cinema e della televisione. La sua interpretazione ha definito l’eroe visivo in modo irreversibile, con quella chioma scura mossa dal vento, il torace scoperto, gli occhi che bruciano vendetta e desiderio.

Sandokan non è passato di moda. È un patrimonio narrativo. È identità pop. È radice e frutto.

E soprattutto continua a vivere. La sua leggenda non si è fermata. Ogni volta che viene trasmesso, scopre nuovi spettatori e ne riporta alla giovinezza altri. Ogni volta è un ritorno. Ogni volta, una rinascita.

E accadrà anche oggi. Perché Sandokan — la Tigre della Malesia — stasera torna in TV.

Non come reliquia, ma come mito ancora vivo. Come vento caldo che soffia dal mare di Mompracem. Come un ruggito che, dopo 140 anni, non ha ancora smesso di graffiare il silenzio. Su Rai 1 da un’idea di Luca Bernabei, la serie è un nuovo adattamento della storica saga di romanzi di Emilio Salgari, sviluppata per la televisione da Alessandro Sermoneta, Scott Rosenbaum e Davide Lantieri, e diretta da Jan Maria Michelini e Nicola Abbatangelo. Sarà distribuita in tutto il mondo da Fremantle e in Spagna da Mediterráneo Mediaset España Group. 
A cinquant’anni dalla celebre serie Rai che lo rese un’icona, torna “Sandokan”, l’eroe di una storia senza tempo che conduce gli spettatori in terre esotiche e tempi lontani: nel Borneo della prima metà dell’Ottocento, tra popoli in lotta per la libertà e potenze coloniali spinte da un’avidità cieca e feroce.   Can Yaman è Sandokan.

Can Yaman

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